La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 5 novembre 2015, n.22611, ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che non adempie alle indicazioni del superiore e si rende protagonista di un acceso diverbio, con tanto di ingiurie, in presenza di altri colleghi. In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
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Licenziamento disciplinare per comportamenti minacciosi del dipendente
MINACCE – LICENZIAMENTO DISCIPLINARE LEGITTIMO
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 2 settembre 2015, n.17435, ha stabilito che è legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che abbia creato tensione all’interno dell’azienda ponendo in essere comportamenti minacciosi. Inoltre, il lavoratore non può limitarsi a dedurre in giudizio che la sua condotta era dovuta a un atteggiamento complessivamente persecutorio che ha subito e che ha avuto come ultimo evento l’espulsione. Il dipendente, infatti, ha l’onere di controdedurre le diverse contestazioni addotte dal datore di lavoro; diversamente, il lavoratore ammette i fatti addebitati.
La Corte di Cassazione ha pertanto confermato quanto già pronunciato dal giudice di secondo grado sia in considerazione della gravità dei fatti contestati e dell’implicita ammissione del lavoratore sia, infine, sulla base del contratto nazionale di categoria applicato nel caso concreto, che prevede il licenziamento senza preavviso per il comportamento minaccioso del dipendente.
Illecito grave del pubblico dipendente: contestazione entro 5 giorni
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 26 agosto 2015, n.17153, ha stabilito che per gli illeciti disciplinari di maggiore gravità, imputabili al pubblico impiegato, come quelli che comportano il licenziamento, l’art.55-bis, D.Lgs. n.165/01, contiene due previsioni: con la prima (co.3) è imposto al dirigente della struttura amministrativa in cui presta servizio l’impiegato la trasmissione degli atti all’ufficio disciplinare entro cinque giorni dalla notizia del fatto; con la seconda (co.4) si prescrive all’ufficio disciplinare la contestazione dell’addebito al dipendente con l’applicazione di un termine pari al doppio di quello stabilito nel co.2 (ossia quaranta giorni).
Lo stesso co.4 dice che la violazione dei termini di cui al presente comma comporta per l’amministrazione la decadenza dal potere disciplinare. Il termine posto dall’art.55-bis non è vanificato né viene irragionevolmente sacrificato l’interesse dell’impiegato alla sollecita definizione del procedimento disciplinare.
La Suprema Corte ha quindi sancito che il termine di cinque giorni ha scopo sollecitatorio, onde la sanzione disciplinare è illegittima se la trasmissione degli atti al dirigente venga ritardata in misura tale da rendere troppo difficile l’esercizio del diritto di difesa spettante all’incolpato ossia da rendere tardiva la contestazione dell’illecito.
Rifiuta mansioni superiori per evitare trasferimento: no al licenziamento
È illegittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che rifiuta di prendere servizio nella sede dove è stato trasferito, ma che è disposto a rinunciare alle mansioni superiori pur di rimanere nello stesso ufficio. Propendono a favore della scelta del lavoratore anche le comprovate difficoltà per motivi fisici di raggiungere la nuova destinazione molto lontana da casa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 15 luglio 2015, n.14829, confermando la nullità del licenziamento intimato per prolungata assenza del lavoratore presso la nuova sede lavorativa, in quanto l’assenza era dovuta al rifiuto del dipendente al trasferimento per motivi di salute. I giudici non si sono limitati a constatare il motivo del rifiuto, ma anzi hanno valutato come elemento dirimente la disponibilità del lavoratore a rinunciare alle mansioni superiori a cui sarebbe dovuto essere adibito per pronuncia giudiziale, al fine di mantenere la sede lavorativa ove non vi era possibilità di espletare tali mansioni.
Licenziamento disciplinare: applicabilità del rito Fornero
La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 31 luglio 2015, n.16265, ha stabilito che, ai sensi del combinato disposto dei co.47 e 67, art.1, L. n.92/12, nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari, al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio va fatto riferimento non al fatto generatore del suddetto rapporto né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l’apparato sanzionatorio disciplinato dal co.42, art.1, c.d. Legge Fornero, va applicato ai licenziamenti comunicati a partire dalla data di entrata in vigore della predetta legge (18 luglio 2012).
La Suprema Corte ha escluso che il licenziamento disciplinare, pur essendo una sanzione, possa ritenersi una pena per la quale vige il principio dell’irretroattività.