Licenziamento per motivi economici: necessario specificare le perdite

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 15 gennaio 2016, n.362, ha stabilito che la Società che procede con il licenziamento di un dipendente per motivi economici, oltre a dimostrare di non poter ricollocare il lavoratore in mansioni equivalenti, deve specificare i carichi commerciali che sono venuti meno e l’entità della diminuzione delle entrate.

La Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore in quanto la situazione finanziaria della Società non denotava affatto l’esigenza di ridurre i costi del personale; infatti la perdita dei carichi commerciali, con conseguente riduzione del carico di lavoro e delle entrate economiche, era risalente rispetto al recesso e, al contrario, nello stesso anno l’azienda aveva chiuso il bilancio con un utile di esercizio.

Insindacabile la sostituzione di dipendenti con altri più qualificati

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 18 novembre 2015, n.23620, ha ritenuto che il contratto di lavoro può essere sciolto a causa di un’onerosità non prevista, alla stregua delle conoscenze ed esperienze di settore, nel momento della sua conclusione e tale sopravvenienza ben può consistere in una valutazione dell’imprenditore che, in base all’andamento economico dell’impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire un personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive. Né l’esercizio di tale potere è sindacabile nel merito dal giudice, ciò tanto più vale quando il Legislatore, come indica l’art.30, L. n.183/10, invocato dalla ricorrente, inclina a tutelare più intensamente la libertà organizzativa dell’impresa.

Impugnazione licenziamento: il giudice può riconoscere la sanzione conservativa

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 2 dicembre 2015, n.24540, ha stabilito che, nell’ipotesi in cui il lavoratore fondi l’impugnazione del licenziamento sull’insussistenza del fatto contestato, il giudice può comunque riconoscere l’illegittimità del licenziamento argomentando in ordine all’applicabilità nel caso concreto di una sanzione conservativa. Ai sensi dell’art.18, co.4, L. n.300/70, come modificato dalla L. n.92/12, il giudice è, infatti, tenuto a verificare l’inquadramento del fatto contestato nell’ambito delle condotte punibili con sanzione conservativa con riferimento alle norme del contratto collettivo. Ciò stabilito, la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, la quale aveva riconosciuto che il fatto addebitato alla lavoratrice era punibile con una sanzione conservativa e non con quella espulsiva.

Mobbing: danno esistenziale se è provata la modifica in peius della vita

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 23 novembre 2015, n.23837, ha deciso che la voce del danno esistenziale ben può essere esclusa dal risarcimento al lavoratore oggetto di condotta persecutoria da parte del datore di lavoro (c.d. mobbing) laddove l’interessato non fornisca la prova della modifica in peius della sua vita ad opera di dette condotte, dovendosi osservare che, essendo il danno esistenziale legato indissolubilmente alla persona, necessita esso imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato piò fornire, non potendo infatti escludersi che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva.

Contratti di solidarietà difensivi: applicazione dopo la Stabilità 2016

Il Ministero del Lavoro, con nota n.524 dell’11 gennaio, ricorda che l’art.1, co.305, L. n.208/15, in attuazione dell’art.46, co.3, D.Lgs. n.148/15, ha disposto che i contratti di solidarietà difensivi, se stipulati antecedentemente al 15 ottobre 2015, hanno copertura per tutta la durata prevista e, negli altri casi, fino al 31 dicembre 2016, nel limite massimo di 60 milioni di euro per il 2016.

Il Ministero precisa che:

  • tutti i contratti di solidarietà stipulati in data antecedente al 15 ottobre 2015 saranno applicati per la durata del contratto prevista dal verbale di accordo firmato dalle parti;
  • tutti i contratti di solidarietà stipulati a partire dal 15 ottobre 2015 saranno applicati comunque non oltre la data del 31 dicembre 2016, anche nel caso in cui il verbale di accordo sindacale preveda una scadenza del periodo di solidarietà successiva a tale data;
  • l’ultimo giorno valido per la stipula di un contratto di solidarietà rimane, in ogni caso, il 30 giugno 2016.

Dimissioni e risoluzione consensuale: nuove modalità di comunicazione in G.U.

È stato pubblicato sulla G.U. n.7 dell’11 gennaio il decreto del Ministero del Lavoro 15 dicembre 2015, recante le nuove modalità di comunicazione delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, in vigore dal 12 gennaio 2016. In particolare il decreto definisce i dati contenuti nel modulo per le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e la loro revoca e gli standard e le regole tecniche per la compilazione del modulo e per la sua trasmissione al datore di lavoro e alla DTL competente, in attuazione di quanto previsto dall’art.26, co.3, D.Lgs. n.151/15.

La procedura prevede l’accesso al modello attraverso link specifici nel portale lavoro.gov.it, che a sua volta poggia sull’anagrafica delle utenze di ClicLavoro per il riconoscimento della tipologia dell’utente, e sull’autenticazione tramite il Pin Inps per il suo riconoscimento certo. Il possesso del Pin Inps non sostituisce le credenziali ClicLavoro, ma si aggiunge, allo scopo di conferire un maggior livello di sicurezza al riconoscimento.

Non è necessario possedere l’utenza ClicLavoro e il Pin Inps nel caso in cui la trasmissione del modulo venga eseguita tramite un soggetto abilitato.

Legittimo il licenziamento per ingiurie e insubordinazione

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 5 novembre 2015, n.22611, ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che non adempie alle indicazioni del superiore e si rende protagonista di un acceso diverbio, con tanto di ingiurie, in presenza di altri colleghi. In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Rifiuto di trasformazione del rapporto di lavoro in part time e licenziamento

Con sentenza n. 21875 del 27 ottobre 2015, la Corte di Cassazione ha dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore che si rifiuta di ridurre il proprio impegno orario, sulla base della previsione contenuta nel D.L.vo n. 61/2000, confermata dall’art. 8, comma 1, del D.L.vo n. 81/2015.

Nel caso di specie, una direttrice sanitaria ha impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole dal Centro di medicina nucleare presso cui lavorava, in quanto sosteneva che il recesso fosse sorretto da un motivo illecito con carattere ritorsivo, ovvero dipendeva dal fatto che avesse rifiuto di acconsentire alla riduzione a 20 ore settimanali del suo orario di lavoro.
La Corte d’appello confermando il rigetto del ricorso del Tribunale, ha affermato che il licenziamento della lavoratrice fosse giustificato da motivi economici dimostrati e da scelte organizzative insindacabili, l’azienda, infatti, versava in condizioni di deterioramento finanziario e per questo si era vista costretta ad una riorganizzazione economico-aziendale, con una conseguente riduzione dei costi del personale dipendente. La Corte dichiarava, inoltre, che lo stesso licenziamento non avesse né carattere ritorsivo né discriminatorio, ma era dipeso da una scelta datoriale di utilizzare due direttori sanitari a tempo parziale.
Diversamente dai giudizi di I e II grado, la Cassazione ha, invece, dichiarato che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in parziale, non costituisce giustificato motivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 5, co. 1, del D.Lgs. n. 61/2000, abrogato, come l’intera legge, dall’art. 55, co. 1, lett. a), del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015.
Tale divieto di licenziamento, derivante direttamente dall’applicazione della Direttiva Comunitaria sul tempo parziale (Direttiva 97/81/CE del 15 dicembre 1997), può essere superato soltanto nella ipotesi in cui sia dimostrato, in giudizio, che sussistono oggettiva esigenze aziendali che impediscono la prosecuzione del rapporto a tempo pieno.
Pertanto, la norma nazionale, interpretata alla luce di quella comunitaria, impone di ritenere che il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione di orario ha l’onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico- organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto, nonché il nesso causale tra queste e il licenziamento.

Trasformazione a tempo parziale e licenziamento

La Cassazione civile, sez. lav., con sentenza del 27 ottobre 2015, n.21875, ha stabilito che non può concorrere a dimostrare la sussistenza del giustificato motivo oggettivo l’indisponibilità della lavoratrice a ridurre il proprio impegno orario, considerato che, ai sensi dell’art.5, co.1, D.Lgs. n.61/00 – abrogato, come l’intera legge, dall’art.55, co.1, lett.a), D.Lgs. n.81/15 – il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in parziale, o viceversa, “non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

La norma nazionale, interpretata alla luce di quella comunitaria, impone di ritenere che il datore di lavoro che licenzi il lavoratore che rifiuta la riduzione di orario ha l’onere di dimostrare che sussistono effettive esigenze economico­organizzative in base alle quali la prestazione non può essere mantenuta a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto, nonché il nesso causale tra queste e il licenziamento.

Licenziamento disciplinare per comportamenti minacciosi del dipendente

MINACCE –  LICENZIAMENTO DISCIPLINARE LEGITTIMO

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 2 settembre 2015, n.17435, ha stabilito che è legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che abbia creato tensione all’interno dell’azienda ponendo in essere comportamenti minacciosi. Inoltre, il lavoratore non può limitarsi a dedurre in giudizio che la sua condotta era dovuta a un atteggiamento complessivamente persecutorio che ha subito e che ha avuto come ultimo evento l’espulsione. Il dipendente, infatti, ha l’onere di controdedurre le diverse contestazioni addotte dal datore di lavoro; diversamente, il lavoratore ammette i fatti addebitati.

La Corte di Cassazione ha pertanto confermato quanto già pronunciato dal giudice di secondo grado sia in considerazione della gravità dei fatti contestati e dell’implicita ammissione del lavoratore sia, infine, sulla base del contratto nazionale di categoria applicato nel caso concreto, che prevede il licenziamento senza preavviso per il comportamento minaccioso del dipendente.