La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 14 settembre 2017, n. 21328, ha stabilito che, ai fini della configurazione del mobbing, il ricorrente deve provare in giudizio la sussistenza:
- di una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro di lui in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.