Licenziamento illegittimo se il CCNL prevede una sanzione conservativa

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 30 marzo 2016, n.6165, ha stabilito che il datore di lavoro non può irrogare la sanzione risolutiva del rapporto di lavoro se il contratto collettivo indica per la medesima infrazione una sanzione conservativa. Inoltre i precedenti disciplinari costituiscono solamente uno dei parametri di valutazione e non possono essere utilizzati per definire la gravità dell’infrazione al fine di irrogare il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. La Suprema Corte ha quindi cassato la sentenza di secondo grado che aveva ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che, pur essendo in malattia, si era recato sul posto di lavoro e si rivolgeva al datore di lavoro con espressioni sconvenienti e minacciose usando il dialetto locale; per questo tipo di atteggiamento il Csnl, infatti, non prevedeva la sanzione espulsiva.

Legittimo il licenziamento per giusta causa in caso di insubordinazione

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 23 marzo 2016, n.5576, ha stabilito che è legittimo il licenziamento per insubordinazione del lavoratore che si rivolge all’amministratore con espressioni dal tono minaccioso, se non addirittura ingiurioso, e dal contenuto scortese. A nulla vale che l’atteggiamento del dipendente scaturisca da una serie di sanzioni irrogategli dal datore di lavoro, se gli stessi provvedimenti non sono neppure mai stati impugnati.

MOBBING: RICONOSCIUTA DALLA SUPREMA CORTE UNA FORMA PIÙ ATTENUATA: LO STRAINING

La Suprema Corte con sentenza n.3291 ha statuito sulle ipotesi in cui si configura lo straining, che si realizza attraverso vessazioni saltuarie

Si parla di ‘mobbing’  tutte le volte in cui nel luogo di lavoro si verificano situazioni relazionali o organizzative non corrette. Esso si manifesta in particolare, attraverso comportamenti, parole, gesti, scritti, posti in essere in modo continuativo e costante, che arrecano offesa alla personalità e all’integrità psico-fisica della persona, compromettendo il clima lavorativo. Il mobbing si concretizza dunque attraverso molteplici forme che possono consistere in continue critiche sull’operato; in una emarginazione del soggetto attraverso l’ostilità e la non comunicazione e nell’assegnazione di compiti dequalificanti e banali. La Corte di cassazione, con una recente sentenza n. 3291/2016, si è pronunciata proprio su una particolare tipologia di mobbing attenuato, lo ‘straining’, consistente in una situazione costante di stress che si manifesta in condotte tendenti alla dequalificazione, in sostanza ad uno svuotamento completo delle mansioni del lavoratore

Quando si configura il ‘mobbing’ e quando lo ‘straining’?

Il caso da cui trae origine la sentenza della Corte di Cassazione riguarda una dipendente di un’Azienda Ospedaliera che aveva proposto ricorso in Tribunale per vedersi risarcire il danno da mobbing e da demansionamento. La dottoressa fra i motivi del ricorso infatti aveva dato risalto a 2 episodi perpetrati nei suoi confronti dal primario dell’Ospedale. In uno il primario non le aveva consegnato la scheda di valutazione, nell’altro episodio invece il primario aveva stracciato la relazione di consulenza della ricorrente che avrebbe dovuto essere allegata ad una cartella clinica. I giudici di merito hanno però escluso il danno da mobbing mancando l’elemento della oggettiva frequenza della condotta ostile. Infatti non emergeva alcun danno alla professionalità della ricorrente, benché i magistrati avevano riscontrato delle indubbie difficoltà logistiche e organizzative all’interno della struttura ospedaliera. Era dunque stato confermato solo il diritto al risarcimento dei danni in relazione all’accertamento di una situazione di stress lavorativo subito dalla dottoressa in virtù dell’ 2087 codice civile. I giudici dell’Appello infatti hanno ritenuto che la riorganizzazione del reparto non era certo avvenuta per danneggiare la dottoressa, il cui impegno part-time limitava però le mansioni che le potevano essere affidate. La dipendente non si è accontenta e ha deciso di proporre ricorso per Cassazione contro la sentenza d’Appello nella parte in cui non gli veniva riconosciuto anche il danno da perdita di chance.

La Cassazione e i presupposti dello straining

La Corte di Cassazione, confermando la sentenza dei colleghi di merito, ha qualificato i comportamenti e gli episodi di emarginazione messi in atto contro la dottoressa come straining. Gli Ermellini hanno evidenziato che essi generalmente si manifestano in situazioni di stress forzato ove la vittima subisce azioni ostili ma limitate nel numero e distanziate nel tempo. Nel caso di specie infatti la condotta dannosa e vessatoria posta in essere dal primario era priva del requisito della continuità e si era realizzata infatti con una azione unica e isolata. Gli ermellini hanno quindi ritenuto che la liquidazione del danno abbia rispecchiato esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanete subito dalla dottoressa. Gli Ermellini hanno dunque ritenuto congrua la somma riconosciuta alla dottoressa dai giudici dell’Appello che non hanno violato in principio tra il chiesto e in pronunciato qualificando appunto la condotta di mobbing quale straining.