Jobs Act: le sanzioni per lavoro nero dopo il decreto Semplificazioni

Il D.Lgs. n.148/15, all’art.22, è intervenuto in materia di sanzioni per lavoro nero.

La sanzione amministrativa pecuniaria connessa con l’impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, ad esclusione del lavoro domestico, è stata così rimodulata, eliminando la maggiorazione per ciascuna giornata di lavoro effettivo e legandola a fasce di giornate di lavoro:

  • da € 1.500,00 a € 9.000,00 per ogni lavoratore irregolare impiegato sino a 30 giornate di effettivo lavoro;
  • da € 3.000,00 a € 18.000,00 per ogni lavoratore irregolare impiegato da 31 a 60 giorni di effettivo lavoro;
  • da € 6.000,00 a € 36.000,00 per ogni lavoratore irregolare impiegato per oltre 60 giorni di effettivo lavoro;
  • le sanzioni sono aumentate del 20% se siano impiegati lavoratori stranieri non in regola con il permesso di soggiorno o minori in età non lavorativa.

Non si applica più l’aumento del 30% dell’importo delle sanzioni per lavoro nero.

Nel nuovo co.3 non è presente la previsione contenuta nell’ultimo periodo del vecchio testo, che statuiva che l’importo delle sanzioni civili connesse all’evasione dei contributi e dei premi riferiti a ciascun lavoratore irregolare fosse aumentato del 50%.

La violazione è ora diffidabile, fatti salvi i casi di impiego di lavoratori stranieri non in regola col permesso di soggiorno o minori in età non lavorativa.

La diffida prevede, per i lavoratori irregolari ancora in forza e fatta salva l’ipotesi in cui risultino regolarmente occupati per un periodo lavorativo successivo, la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale con riduzione dell’orario non superiore al 50%, o con contratto a tempo pieno e determinato di non meno di 3 mesi, nonché il mantenimento in servizio degli stessi per almeno 3 mesi. In tale ipotesi, la prova dell’avvenuta regolarizzazione e del pagamento delle sanzioni e dei contributi e premi previsti, è fornita entro 120 giorni dalla notifica del verbale.

Legittimo il licenziamento in tronco per violazione dell’obbligo di fedeltà

L’obbligo di fedeltà impone al lavoratore di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente.

Ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore, è sufficiente la mera preordinazione di una attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno. È perciò indubbio che l’obbligo sia violato quando il lavoratore subordinato svolga attività in favore di terzi, peraltro operanti nel medesimo settore della società datrice di lavoro, quale che sia il contenuto, più o meno complesso e impegnativo, di tale attività.

Il pericolo attuale e continuo per gli interessi del datore giustifica altresì il licenziamento in tronco.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 9 luglio 2015, n.14304.

Mobbing: onere della prova a carico del lavoratore

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 3 luglio 2015, n.13693, ha stabilito che quando si chiede il risarcimento danni per mobbing incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di allegare e provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la dimostrazione di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi.

Nel caso di specie, la Corte ha quindi respinto il ricorso del lavoratore in quanto non erano stati illustrati gli elementi strutturali della fattispecie, né allegata alcuna istanza istruttoria sul punto.

Rifiuta mansioni superiori per evitare trasferimento: no al licenziamento

È illegittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che rifiuta di prendere servizio nella sede dove è stato trasferito, ma che è disposto a rinunciare alle mansioni superiori pur di rimanere nello stesso ufficio. Propendono a favore della scelta del lavoratore anche le comprovate difficoltà per motivi fisici di raggiungere la nuova destinazione molto lontana da casa.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 15 luglio 2015, n.14829, confermando la nullità del licenziamento intimato per prolungata assenza del lavoratore presso la nuova sede lavorativa, in quanto l’assenza era dovuta al rifiuto del dipendente al trasferimento per motivi di salute. I giudici non si sono limitati a constatare il motivo del rifiuto, ma anzi hanno valutato come elemento dirimente la disponibilità del lavoratore a rinunciare alle mansioni superiori a cui sarebbe dovuto essere adibito per pronuncia giudiziale, al fine di mantenere la sede lavorativa ove non vi era possibilità di espletare tali mansioni.

Licenziamento disciplinare: applicabilità del rito Fornero

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 31 luglio 2015, n.16265, ha stabilito che, ai sensi del combinato disposto dei co.47 e 67, art.1, L. n.92/12, nei giudizi aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari, al fine di individuare la legge regolatrice del rapporto sul versante sanzionatorio va fatto riferimento non al fatto generatore del suddetto rapporto né alla contestazione degli addebiti, ma alla fattispecie negoziale del licenziamento, sicché l’apparato sanzionatorio disciplinato dal co.42, art.1, c.d. Legge Fornero, va applicato ai licenziamenti comunicati a partire dalla data di entrata in vigore della predetta legge (18 luglio 2012).

La Suprema Corte ha escluso che il licenziamento disciplinare, pur essendo una sanzione, possa ritenersi una pena per la quale vige il principio dell’irretroattività.

Superamento comporto: sì al licenziamento dopo un rilevante lasso temporale

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n.16462 del 5 agosto, ha stabilito che il fatto che il datore di lavoro accetti la ripresa dell’attività lavorativa del dipendente, nonostante il superamento del periodo di comporto, non significa che abbia rinunciato ad intimare il licenziamento.

Nell’ipotesi in cui il licenziamento venga intimato dopo un intervallo temporale rilevante, il datore di lavoro deve fornire la prova del nesso causale tra l’esercizio del diritto di recesso e il superamento del periodo di comporto.

È, invece, onere del lavoratore dimostrare che la riammissione in servizio costituisca, nel caso concreto, una manifestazione tacita del datore di lavoro di rinunciare a far valere il suo diritto al recesso.

Ad ogni modo, l’intervallo di tempo trascorso dovrà essere valutato dal giudice tenendo conto delle caratteristiche dimensionali e organizzative dell’azienda.

La Corte ha ribadito che, a differenza del licenziamento disciplinare che richiede la tempestività, il licenziamento per superamento del comporto può essere contemperato con un ragionevole lasso di tempo.